Il mondo del catch
grandes circostances de la vie.
BAUDELAIRE.
Certe persone credono che il catch sia uno sport ignobile. Il catch non è uno sport, è uno spettacolo, e non è più ignobile assistere a una rappresentazione catchistica del Dolore che alle sofferenze di Arnolfo o di Andromaca. Certo, esiste un falso catch rappresentato con grandi spese e le apparenze inutili di uno sport regolare; questo non ha nessuna importanza. Il vero catch, detto impropriamente catch dilettantistico, si pratica nelle sale di periferia, dove il pubblico si accorda spontaneamente alla natura spettacolare del combattimento, come fa il pubblico di un cinema dei sobborghi. Quelle stesse persone si indignano poi del fatto che il catch sia uno sport truccato (Il che, del resto, dovrebbe in parte liberarlo della sua ignominia). Il pubblico si disinteressa altamente di sapere se l'incontro è o non è truccato, e ha ragione; si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede.
Questo pubblico sa distinguere molto bene il catch dal pugilato; sa che il pugilato è uno sport giansenista, fondato sulla dimostrazione di una supremazia; si può scommettere sul risultato di un incontro di pugilato: per il catch non avrebbe senso. L'incontro di pugilato è una storia che si costruisce sotto gli occhi dello spettatore; nel catch, al contrario, intellegibile è ogni momento, non la durata. Lo spettatore non si interessa al consolidarsi di un successo, esige dunque una lettura immediata dei sensi giustapposti, senza che sia necessario connetterli. L'avvenire razionale del combattimento non interessa l'appassionato di catch, dove invece un incontro di pugilato implica sempre una scienza del futuro. In altre parole il catch è una somma di spettacoli nessuno dei quali è una funzione: ogni momento impone la conoscenza totale di una passione che si eleva sola e diritta, senza mai distendersi verso il coronamento di un risultato.
Così la funzione del lottatore non è di vincere, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui. Si dice che il judo contenga una segreta parte di simbolicità; anche nell'azione si tratta di gesti contenuti, precisi ma brevi, disegnati con giustezza ma in una linea senza volume. Al contrario il catch propone gesti eccessivi, sfruttati fino al parossismo della loro significazione. Nel judo, a terra un uomo ci sta a malapena, rotola su se stesso, si sottrae, schiva la sconfitta, o, se questa è evidente, esce immediatamente dal gioco; nel catch, a terra un uomo ci sta in modo esagerato, riempiendo fino in fondo la vista degli spettatori con l'intollerabile spettacolo della sua impotenza.
Questa funzione di enfasi è ben la stessa del teatro antico, il cui meccanismo, la cui lingua e accessori (maschere e coturni) concorrevano alla spiegazione esageratamente visibile di una Necessità. Il gesto del lottatore vinto che rende manifesta al mondo la sua sconfitta e lungi dal mascherarla l'accentua e tiene come una nota allungata, corrisponde alla maschera antica che deve rendere manifesto il tono tragico dello spettacolo. Al catch, come sugli antichi teatri, non si ha vergogna del proprio dolore, si è capaci di piangere, si ha il gusto delle lacrime.
Ogni segno del catch è dunque dotato di una chiarezza totale, perché bisogna sempre capire tutto, immediatamente. Appena gli avversari sono sul quadrato, il pubblico è investito dall'evidenza dei ruoli. Come a teatro, ogni tipo fisico esprime all'eccesso la parte che è stata assegnata al lottatore. Thauvin, cinquantenne obeso e in disfacimento, la cui specie di bruttezza asessuata ispira sempre soprannomi femminili, mette in mostra nella sua stessa carne i caratteri dell'ingobile, perché il suo ruolo è di raffigurare tutto ciò che, nel concetto classico di saud (concetto chiave di ogni incontro di catch), si presenta come organicamente ripugnante. La nausea volontariamente provocata da Thauvin va dunque molto lontano nell'ordine dei segni: non solo ci si serve della bruttezza per rappresentare la bassezza, ma in più questa bruttezza è interamente concentrata in una qualità particolarmente repellente della materia: il cedimento squallido di una carne morta (il pubblico chiama Thauvin "la carnaccia"), in modo che la condanna appassionata della folla non scaturisce più dal suo giudizio ma si leva dalla più profonda regione del suo istinto. Ci si impegolerà dunque con frenesia in una ulteriore immagine di Thauvin in tutto conforme alla sua partenza fisica: i suoi atti risponderanno perfettamente alla essenziale vischiosità del personaggio.
La prima chiave del combattimento è quindi il corpo del lottatore. Fin da principio so che tutti i gesti di Thauvin, i suoi tradimenti, le sue crudeltà e vigliaccherie, non deluderanno la prima immagine ch'egli mi ha dato dell'ignobile, posso fargli fiducia ch'egli compierà intelligentemente e fino in fondo tutti i gesti di una determinata informe bassezza e che colmerà fino all'orlo l'immagine del farabutto più ripugnante che ci sia: il farabutto-piovra. I lottatori hanno perciò un fisico altrettanto perentorio che i personaggi della Commedia dell'arte, i quali scoprono in anticipo, nei loro costumi e atteggiamenti, il contenuto futuro delle loro parti: allo stesso modo che Pantalone non potrà non essere un cornuto ridicolo, Arlecchino un servo astuto e il Dottore un pedante imbecille, così Thauvin non sarà altro che il traditore ignobile; Reinières (un gigante biondo dal corpo molliccio e la folle capigliatura) l'immagine commovente della passività, Mazaud (galletto arrogante) quella della fatalità grottesca, e Orsano (gagà effeminato comparso fin dall'inizio in una vestaglia azzurra e rosa) quella, doppiamente piccante, di una salope vendicativa (perché non penso che il pubblico dell'Elysée-Montmartre segua Littré e prenda il termine salope per un maschile).
Il fisico dei lottatori costituisce dunque un segno basilare, che contiene in germe tutto il combattimento. Ma questo germe prolifera perché in ogni fase del combattimento, in ogni nuova situazione, il corpo del lottatore offre al pubblico il divertimento unico di un carattere naturalmente collegato a un gesto. Le diverse linee di significazione si illuminano reciprocamente, e formano il più intelegibile degli spettacoli. Il catch è come una scrittura diacritica: al di sopra della significazione fondamentale del suo corpo, il lottatore dispone di spiegazioni episodiche ma sempre opportune, aiutando incessantemente la lettura del combattimento mediante gesti, atteggiamenti e mimiche che portano l'intenzione alla sua massima evidenza. Ora il lottatore trionfa con un ghigno ignobile nell'atto di tenere il bravo sportivo sotto le ginocchia, poi rivolge alla folla un sorriso di sufficienza, annunciante la vendetta vicina; traccia per terra ad indicare a tutti la natura intollerabile della sua situazione; alla fine, mette su un insieme complicato di segni intesi a mostrare come egli incarni a buon diritto l'immagine sempre divertente del caratteraccio che fa della sua scontentezza una fonte inesauribile di chiacchiere.
Si tratta dunque di una vera a propria Commedia Umana, dove le più sottili gradazioni sociali della passione (fatuità, senso del proprio diritto e del "ripagamento", crudeltà raffinata) incontrano sempre, fortunatamente, il segno più chiaro che le possa raccogliere, esprimere e portare trionfalmente fino ai confini della sala. Su questo piano si capisce che non importi più che la passione sia autentica. Il pubblico reclama solo l'immagine della passione, non la passione in sé. Nel catch non c'è problema di verità come non c'è a teatro. In questo come in quello, quando ci si aspetta è la raffigurazione intellegibile di situazioni morali abitualmente nascoste. Questo svuotamento dell'interiorità a vantaggio dei suoi segni esteriori, questo esaurimento del contenuto nella forma, è il principio stesso dell'arte classica trionfante. Il catch è una pantomima immediata, infinitamente più efficace della pantomima teatrale, perché il gesto del lottatore non ha bisogno di nessun racconto, di nessuno scenario, in una parola di nessun rimando, per apparire vero.
Ogni momento del catch è quindi come un'algebra che sveli istantaneamente la relazione di una causa e del suo effetto figurato. Certamente negli appassionati di catch c'è una sorta di piacere intellettuale nel veder funzionare cosi perfettamente i meccanismi della morale: certi lottatori, grandi attori, divertono allo stesso grado di un personaggio di Molière, perché riescono a imporre una lettura immediata della loro interiorità: un lottatore del carattere arrogante e ridicolo (come si dice che è un carattere Arpagone), Armand Mazaud, riempie regolarmente la sala di soddisfazione con il rigore matematico delle sue trascrizioni, spingendo il disegno dei propri gesti fino al vertice estremo della loro significazione, e dando al proprio combattimento la stessa specie di slancio e di precisione di una grande disputa scolastica, la cui posta è, insieme, il trionfo dell'orgoglio e lo scrupolo formale della verità.
In tal modo viene elargito al pubblico il grande spettacolo del Dolore, della Disfatta e della Giustizia. Il catch espone il dolore umano con tutta l'amplificazione delle maschere tragiche: il lottatore che soffre sotto l'effetto di una presa ritenuta crudele (un braccio contorto, una gamba incastrata) presenta la figura eccessiva della Sofferenza; come una Pietà primitiva, lascia vedere il volto esageratamente deformato da un'afflizione intollerabile. Si capisce che nel catch il pudore sarebbe fuori posto, in contrasto con l'ostentazione programmatica dello spettacolo, con quella Esposizione del Dolore che è la finalità stessa del combattimento. Così tutti gli atti generatori di sofferenza sono particolarmente spettacoli, come il gesto di un prestigiatore che faccia vedere ben alte le carte: non si capirebbe un dolore che risultasse senza causa intellegibile; un gesto segreto effettivamente crudele trasgredirebbe le leggi non scritte del catch e non sarebbe di alcuna efficacia sociologica, come un gesto folle o parassita. Al contrario la sofferenza appare inflitta con larghezza e convinzione, perché bisogna che tutti non solo rilevino che l'uomo soffre, ma anche e soprattutto capiscano perché soffre. Quella che i lottatori chiamano "una presa", cioè una qualsiasi figura che permetta di immobilizzare indefinitamente l'avversario e tenervelo a proprio piacimento, ha appunto la funzione di preparare in modo convenzionale, quindi intellegibile, lo spettacolo della sofferenza, di porre metodicamente le condizioni della sofferenza: l'inerzia del vinto permette al vincitore (momentaneo) di confermarsi nella sua crudeltà e di trasmettere al pubblico la terrificante ignavia dell'aguzzino sicuro del susseguirsi dei propri gesti: strofinare rudemente il muso dell'avversario impotente o raschiare la sua colonna vertebrale con pugno profondo e regolare, compiere almeno la superficie visiva di questi gesti: il catch è il solo sport che dia un'immagine tanto esteriore della tortura. Ma, ancora una volta, solo l'immagine è nel campo del gioco, e lo spettatore non desidera affatto la sofferenza reale del lottatore, gusta solo la perfezione di un'iconografia. Non è vero che il catch sia uno spettacolo sadico: è soltanto uno spettacolo intellegibile.
C'è un'altra figura ancora più spettacolare della presa, ed è la manchette, quella grande pacca degli avambracci, quel pugno larvato con cui si massacra il petto dell'avversario, con un suono vuoto e con l'accasciamento esagerato del corpo vinto. Nella manchette la catastrofe è portata al massimo dell'evidenza, tanto che, al limite, il gesto finisce per ridursi a un simbolo; ma è andare troppo oltre, uscire dalle regole del catch, in cui ogni segno deve essere estremameente chiaro senza però lasciar trasparire la sua intenzione di chiarezza; il pubblico allora grida "Simulatore", non perché lamenti l'assenza di una sofferenza effettiva, ma perché condanna l'artificio: come a teatro, si viene meno al gioco tanto per eccesso di sincerità quanto per eccesso di studio.
Si è già detto come i lottatori sfruttino tutte le risorse di un certo stile fisico, costruito e utilizzato per sviluppare agli occhi del pubblico un'immagine totale della Sconfitta.
La mollezza dei grandi corpi bianchi che crollano a terra tutti d'un pezzo o affondano nelle corde agitando le braccia, l'inerzia dei massicci lottatori fatti miserevolmente rimbalzare da tutte le superfici elastiche del quadrato, niente può significare più chiaramente e più appassionatamente l'esemplare abbassamento del vinto. Privata di ogni possibilità di reazione la carne del lottatore è solo una massa ignobile sparsa a terra che invita a ogni sorta di incrudelimento e di delirio. Si ha qui un parossismo di significazione all'antica, che non può non richiamare il lusso di intenzioni dei trionfi latini. In altri momenti è ancora una figura antica che nasce dall'accoppiamento dei lottatori, quella del supplice, dell'uomo arreso a discrezione , piegato in ginocchio, con le braccia alzate sopra la testa, e lentamente abbassato dalla tensione verticale del vincitore. Nel catch, contrariamente al judo, la Sconfitta non è un segno convenzionale abbandonato appena ottenuto; non è uno scioglimento, bensì, al contrario, una durata, una esibizione che riprende gli antichi miti della Sofferenza e dell'Umiliazione pubblica: la croce e la gogna. Il lottatore è come crocifisso alla luce del giorno, agli occhi di tutti. Ho sentito dire di un lottatore steso a terra: "Ecco, il piccolo Gesù è morto in croce", e questa frase ironica scopriva le radici profonde di uno spettacolo in cui si compiono gli stessi gesti delle più antiche purificazioni.
Ma il catch ha soprattutto il compito di mimare un concetto puramente morale: la giustizia. L'idea di ripagamento è essenziale al catch e il "Fagli male" della folla significa prima di tutto un "Fagliela pagare". Si tratta dunque, senza dubbio, di una giustizia immanente. Più è vile l'azione del salaud, più il colpo che gli è giustamente reso riempie il pubblico di soddisfazione: se il traditore – che è naturalmente un pavido – si rifugia dietro le corde facendo capire la realtà del suo torto con una mimica sfrontata, ne viene spietatamente riacciuffato, e la folla delira di fronte alla violazione della regola in nome di un meritato castigo. I lottatori sanno assecondare benissimo la capacità di indignazione del pubblico presentatogli il limite stesso del concetto di giustizia, quella zona estrema dello scontro in cui basta allontanarsi ancora un po' dalla regola per aprire le porte di un mondo sfrenato. Per l'appassionato di catch niente è più bello del furore vendicativo di un lottatore tradito che si scaglia con foga non su un avversario fortunato ma sull'immagine sferzante della slealtà. Naturalmente qui importa molto più il processo della Giustizia che non il suo contenuto: il catch è prima di tutto una serie quantitativa di compensazioni (occhio per occhio, dente per dente). Questo spiega come i rovesciamenti di situazione posseggano agli occhi degli appassionati del catch una sorta di bellezza morale: essi ne godono come di una vicenda romanzesca ben a proposito, e più è grande il contrasto tra la riuscita di un colpo e il mutare della sorte, più è vicina al crollo la fortuna di un contendente e più il melodramma è giudicato soddisfacente. La Giustizia è quindi il corpo di una trasgressione possibile; proprio in quanto c'è una Legge lo spettacolo delle passioni che soverchiano ha tutto il suo valore.
Si capirà quindi come su cinque incontri di catch uno solo all'incirca si regolare. Una volta di più bisogna rendersi conto che qui la regolarità è un ruolo o un genere, come in teatro: la regola non costituisce affatto una vera costrizione, bensì la convenzionale apparenza della regolarità. Così, in effetti, un incontro regolare non è altro che un incontro esageratamente beneducato; gli avversari, più che rabbia mettono zelo nell'affrontarsi, sanno dominare le loro passioni, non si accaniscono sul vinto, cessano di combattere appena glielo si ingiunge, e si congratulano dopo un episodio particolarmente arduo in cui tuttavia non hanno mancato una sola volta di essere leali l'uno con l'altro. S'intenda naturalmente che tutte queste azioni beneducate sogno segnalate al pubblico coi gesti più convenzionali della lealtà: stringersi la mano, alzare il braccio, allontanarsi ostentatamente da una presa sterile che potrebbe nuocere alla perfezione dell'incontro.
Inversamente la slealtà qui non esiste se non coi suoi segni eccessivi: tirare un calcio al vinto, rifugiarsi dietro le corte invocando ostentatamente un diritto puramente formale, rifiutare di stringere la mano al proprio partner prima o dopo l'incontro, approfittare del "riposo" per tornare a tradimento sulle spalle dell'avversario, tirargli n colpo proibito quando l'arbitro non può vedere (colpo che evidentemente non ha né valore né funzione se non per il fatto che metà della sala può vederlo e indignarsene). Dato che il Male costituisce il clima naturale del catch, il combattimento regolare assume soprattutto un valore d'eccezione; l'utente se ne stupisce e lo saluta al passaggio come un ritorno anacronistico e un po' sentimentale alla tradizione sportiva ("è buffo come sono regolari quelli"); davanti alla generale bontà del mondo si sente improvvisamente commosso, ma morirebbe certamente di noia e d'indifferenza se i lottatori non tornassero molto presto all'orgia dei cattivi sentimenti che soli fanno il buon catch.
Estrapolato, il catch regolare non potrebbe portare che al pugilato, o al judo, mentre il catch vero e proprio deve la sua originalità a tutti gli eccessi che ne fanno uno spettacolo e non uno sport. La fine di un incontro di pugilato o di judo è secca come il punto conclusivo di una dimostrazione. Il ritmo del catch è tutto diverso, giacché il suo senso naturale è quello dell'amplificazione retorica: l'enfasi delle passioni, il rinnovarsi dei parossismi, l'esasperazione delle repliche, non possono naturalmente sfociare che nella effusione più barocca. Certi incontri, e tra i più riusciti, si coronano di una gazzarra finale, sorta di fantasia sfrenata in cui sono aboliti regolamenti, leggi specifiche, censura arbitrale e limiti del quadrato, tra volti in un disordine trionfante che straripa nella sale e trascina alla rinfusa i lottatori, i secondi, l'arbitro e gli spettatori.
E' già stato notato che in America il catch raffigura una sorta di mitologica lotta tra il Bene il Male (di natura para-politica, il cattivo lottatore venendo sempre ritenuto un "Rosso"). Il catch francese ricupera una eroicizzazione tutta diversa, di ordine etico e non più politico. Ciò che il pubblico cerca, qui, è la costruzione progressiva di un'immagine eminentemente morale: quella del perfetto farabutto. Si va al catch per assistere alle avventure rinnovate di un grande protagonista, personaggio unico, permanente e multiforme come Guignol o Scapin, inventivo di figure inattese e tuttavia sempre fedele alla sua parte. Il farabutto si rivela come un carattere di Molière o un ritratto di La Bruyère, cioè come un'entità classica, come un'essenza, i cui atti non sono che epifenomeni significativi distribuiti nel tempo. Questo carattere stilizzato non appartiene a nessuna nazione né ad alcun partito, e sia che il lottatore si chiami Kuzchenco (soprannominato "Baffone" a motivo di Stalin); Yerpazian, Gaspardi, Jo Vignola, o Nollières, l'utente non gli attribuisce altra patria che quella della "regolarità".
Che cos'è dunque un farabutto per questo pubblico in parte composto, sembra, di irregolari? Essenzialmente un instabile, che ammette le regole solo quando gli sono utili e trasgredisce la continuità formale degli atteggiamenti. E' un uomo imprevedibile, quindi asociale. Si rifugia dietro la Legge quando giudica che gli sia propizia e la trasgredisce quando gli fa comodo tradirla; ora nega il limite formale del quadrato e continua a percuotere un avversario letalmente protetto dalle corte, ora ristabilisce tale limite e rivendica la protezione di ciò che un minuto prima non rispettava. Questa inconsequenzialità, molto più che il tradimento o la slealtà, mette il pubblico fuori di sé, in quando esso, urtato non nella propria morale ma nella propria logica, considera la contraddizione degli argomenti come il più ignobile degli sbagli. Il colpo proibito non diventa irregolare se non quando distrugge un equilibrio quantitativo e turba il rigoroso computo delle compensazioni: ciò che il pubblico condanna non è affatto la trasgressione delle pallide regole ufficiali, è il difetto di vendetta, il difetto di penalità. Così, niente è più eccitante per la folla del calcio enfatico al farabutto vinto; la gioia di punire arriva al colmo quando si appoggia a una giustificazione matematica, e il disprezzo, allora, si fa sfrenato: non si tratta più di una salaud ma di una salope, gesto orale della degradazione ultima.
Una finalità tanto precisa richiede che il catch sia esattamente quello che il pubblico si aspetta. I lottatori, uomini di grande esperienza, sanno perfettamente inflettere gli episodi spontanei del combattimento verso l'immagine che il pubblico si è fatto dei temi meravigliosi della sua mitologia. Un lottatore può irritare o disgustare, mai deludere, perché compie sempre fino in fondo, per una progressiva solidificazione dei segni, quello che il pubblico si aspetta da lui. Nel catch niente esiste se non totalmente, non c'è nessun simbolo, nessuna allusione, tutto è dato esaurientemente; non lasciando niente in ombra, il gesto taglia via tutti i sensi parassiti e presenta cerimonialmente al pubblico una pura e completa significazione, tonda come una natura. Quest'enfasi non è altro che l'immagine popolare e ancestrale della perfetta intelligibilità del reale. Ciò che dal catch viene mimato, quindi, è un'intelligenza ideale delle cose, è un'euforia degli uomini, sollevati per un momento al di sopra dell'ambiguità costitutiva delle situazioni quotidiane e installati nella visione panoramica di una Natura univoca, in cui i segni corrispondano finalmente alle cause, senza ostacoli, senza scappatoie e senza contraddizioni.
Quando l'eroe o il farabutto del dramma, l'uomo che è stato visto qualche minuto prima invasato da un furore morale, ingrandito alla misura di una sorta di segno metafisico, lascia la sala del catch, impassibile, anonimo , con una valigetta appesa a un braccio e all'altro braccio la moglie, nessuno può dubitare che il catch possegga la capacità di trasmutazione propria dello Spettacolo e del Culto. Sul quadrato e nel fondo stesso della loro volontaria ignominia i lottatori rimangono degli dèi, perché, per pochi minuti, essi sono la chiave che apre la Natura, il gesto puro che separa il Bene dal Male e svela la figura di una Giustizia finalmente intellegibile.
Roland Barthes, Miti d'oggi, Einaudi.