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Kripax vs Cage: 4'36''





1952: il compositore americano John Cage (1912-1992) presenta al pubblico la composizione 4' 33'', ovvero 4 minuti e trentatrè secondi di silenzio.
Il silenzio, afferma Cage, "è quell'aspetto del suono che può essere espresso sia dal suono che dalla sua assenza, tanto positivamente che negativamente."
"Quello che ascoltando "4'33" alcuni credevano fosse silenzio, poiché ignoravano come ascoltare, è pieno di suoni accidentali.Alla prima esecuzione si poteva sentire, durante il primo movimento, il vento che soffiava dall'esterno. Durante il secondo movimento gocce di pioggia cominciavano a picchiettare sul tetto, e durante il terzo la gente stessa produsse ogni genere di suono interessante parlando o uscendo dalla sala."

2009: il compositore italiano Kripax (1982 -), presenta al pubblico la composizione 4 '36'', o 4 minuti e trentasei secondi di silenzio.
Il silenzio nella traccia registrata è totale, generato digitalmente. Il problema per il pubblico è lo stesso: il silenzio può essere ascoltato? Un' altra questione riguarda il diritto d'autore: Kripax può riprodurre il silenzio "di Cage", senza incorrere in un plagio?
In sua difesa Kripax afferma: "Il mio silenzio è più puro di quello di Cage; e ha anche una maggiore durata. Ciò dovrebbe bastare ad affermare che il mio silenzio è più silenzioso in ogni modo di quello di Cage".


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1952: the american composer John Cage (1912-1992) presented to the public the composition 4.33, or 4 minutes and thirty-three seconds of silence.
Silence, Cage wrote, "is that aspect of sound that can be expressed by both the sound of its absence, both positively and negatively."
"What you listening to" 4'33 "some believed was silence, because they ignored how to listen, is full of accidental sounds. The first performance was heard during the first movement, the wind blew outside. During the second movement drops Rain began to tap on the roof, and the third during the same people produced all sorts of interesting sounds or talking out of the room. "

2009: the italian composer Kripax (1982 - ), presented to the public the composition 4' 36'', or 4 minutes and thirty-six seconds of silence.
The silence in the recorded track is total, digitally generated . The problem for the listener is the same: silence can be heard? Another problem concerns the copyright: Kripax can play the silence of Cage without incurring a plagiarism?
In his defense Kripax says: "My silence is purer than Cage's silence, also has a longer duration. That should suffice to say that my silence is more silent in every way than Cage."

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Cuore


A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m'hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m'insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.



C'è chi, al contrario di me, non dispera,
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e le pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.



(Quanto fu lunga la mia malattia,
e tanto amara la mia vita in quella
fu stretta e spiegazzata come un cencio,
e io pallido e stanco come un mondo
intero dovessi sopportar tutto
su la mia schiena, faticavo tanto,
m'immaginavo mondi tutti assai
più lievi e volatili di questo mio,
che tanto m'affliggeva e tormentava,
e vaneggiavo di nascoste verità
e cieli quieti di pensieri chiari
ove più mio l'animo affranto potesse
dimorare, e non trovavo queste
cose che non esistono, e soffrivo)



I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
E' primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m'accorgo di che è perduto.



M'innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch'io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.



Ma oltre queste verità e dentro queste
vuote parole ho perso la misura.
Ora io so soltanto che son seduto
a questo tavolo e che per tanto buone
ragioni ho tempo e odio da spendere.
E mi basta così senza nemmeno
maledire. Non è perdere al gioco,
e poi fa bene vivere. Un'arte
marziale voglio imparare, di che sempre
si possa indugiare di far male.
Un teatro astratto di colpi e pensieri
per i giorni neri. E poi le gioie e insieme
con gli amici far niente.

Beppe Salvia -
Braci n. 0, gennaio - marzo 1984

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Autobiography

I am leading a quiet life
in Mike’s Place every day
watching the champs
of the Dante Billiard Parlor
and the French pinball addicts.
I am leading a quiet life
on lower East Broadway.
I am an American.
I was an American boy.
I read the American Boy Magazine
and became a boy scout
in the suburbs.
I thought I was Tom Sawyer
catching crayfish in the Bronx River
and imagining the Mississippi.
I had a baseball mit
and an American Flyer bike.
I delivered the Woman’s Home Companion
at five in the afternoon
or the Herald Trib
at five in the morning.
I still can hear the paper thump
on lost porches.
I had an unhappy childhood.
I saw Lindbergh land.
I looked homeward
and saw no angel.
I got caught stealing pencils
from the Five and Ten Cent Store
the same month I made Eagle Scout.
I chopped trees for the CCC
and sat on them.
I landed in Normandy
in a rowboat that turned over.
I have seen the educated armies
on the beach at Dover.
I have seen Egyptian pilots in purple clouds
shopkeepers rolling up their blinds
at midday
potato salad and dandelions
at anarchist picnics.
I am reading ‘Lorna Doone’
and a life of John Most
terror of the industrialist
a bomb on his desk at all times.
I have seen the garbagemen parade
in the Columbus Day Parade
behind the glib
farting trumpeters.
I have not been out to the Cloisters
in a long time
nor to the Tuileries
but I still keep thinking
of going.
I have seen the garbagemen parade
when it was snowing.
I have eaten hotdogs in ballparks.
I have heard the Gettysburg Address
and the Ginsberg Address.
I like it here
and I won’t go back
where I came from.
I too have ridden boxcars boxcars boxcars.
I have travelled among unknown men.
I have been in Asia
with Noah in the Ark.
I was in India
when Rome was built.
I have been in the Manger
with an Ass.
I have seen the Eternal Distributor
from a White Hill
in South San Francisco
and the Laughing Woman at Loona Park
outside the Fun House
in a great rainstorm
still laughing.
I have heard the sound of revelry
by night.
I have wandered lonely
as a crowd.
I am leading a quiet life
outside of Mike’s Place every day
watching the world walk by
in its curious shoes.
I once started out
to walk around the world
but ended up in Brooklyn.
That Bridge was too much for me.
I have engaged in silence
exile and cunning.
I flew too near the sun
and my wax wings fell off.
I am looking for my Old Man
whom I never knew.
I am looking for the Lost Leader
with whom I flew.
Young men should be explorers.
Home is where one starts from.
But Mother never told me
there’d be scenes like this.
Womb-weary
I rest
I have travelled.
I have seen goof city.
I have seen the mass mess.
I have heard Kid Ory cry.
I have heard a trombone preach.
I have heard Debussy
strained thru a sheet.
I have slept in a hundred islands
where books were trees.
I have heard the birds
that sound like bells.
I have worn grey flannel trousers
and walked upon the beach of hell.
I have dwelt in a hundred cities
where trees were books.
What subways what taxis what cafes!
What women with blind breasts
limbs lost among skyscrapers!
I have seen the statues of heroes
at carrefours.
Danton weeping at a metro entrance
Columbus in Barcelona
pointing Westward up the Ramblas
toward the American Express
Lincoln in his stony chair
And a great Stone Face
in North Dakota.
I know that Columbus
did not invent America.
I have heard a hundred housebroken Ezra Pounds.
They should all be freed.
It is long since I was a herdsman.
I am leading a quiet life
in Mike’s Place every day
reading the Classified columns.
I have read the Reader’s Digest
from cover to cover
and noted the close identification
of the United States and the Promised Land
where every coin is marked
In God We Trust
but the dollar bills do not have it
being gods unto themselves.
I read the Want Ads daily
looking for a stone a leaf
an unfound door.
I hear America singing
in the Yellow Pages.
One could never tell
the soul has its rages.
I read the papers every day
and hear humanity amiss
in the sad plethora of print.
I see where Walden Pond has been drained
to make an amusement park.
I see they’re making Melville
eat his whale.
I see another war is coming
but I won’t be there to fight it.
I have read the writing
on the outhouse wall.
I helped Kilroy write it.
I marched up Fifth Avenue
blowing on a bugle in a tight platoon
but hurried back to the Casbah
looking for my dog.
I see a similarity
between dogs and me.
Dogs are the true observers
walking up and down the world
thru the Molloy country.
I have walked down alleys
too narrow for Chryslers.
I have seen a hundred horseless milkwagons
in a vacant lot in Astoria.
Ben Shahn never painted them
but they’re there
askew in Astoria.
I have heard the junkman’s obbligato.
I have ridden superhighways
and believed the billboard’s promises
Crossed the Jersey Flats
and seen the Cities of the Plain
And wallowed in the wilds of Westchester
with its roving bands of natives
in stationwagons.
I have seen them.
I am the man.
I was there.
I suffered
somewhat.
I am an American.
I have a passport.
I did not suffer in public.
And I’m too young to die.
I am a selfmade man.
And I have plans for the future.
I am in line
for a top job.
I may be moving on
to Detroit.
I am only temporarily
a tie salesman.
I am a good Joe.
I am an open book
to my boss.
I am a complete mystery
to my closest friends.
I am leading a quiet life
in Mike’s Place every day
contemplating my navel.
I am a part
of the body’s long madness.
I have wandered in various nightwoods.
I have leaned in drunken doorways.
I have written wild stories
without punctuation.
I am the man.
I was there.
I suffered
somewhat.
I have sat in an uneasy chair.
I am a tear of the sun.
I am a hill
where poets run.
I invented the alphabet
after watching the flight of cranes
who made letters with their legs.
I am a lake upon a plain.
I am a word
in a tree.
I am a hill of poetry.
I am a raid
on the inarticulate.
I have dreamt
that all my teeth fell out
but my tongue lived
to tell the tale.
For I am a still
of poetry.
I am a bank of song.
I am a playerpiano
in an abandoned casino
on a seaside esplanade
in a dense fog
still playing.
I see a similarity
between the Laughing Woman
and myself.
I have heard the sound of summer
in the rain.
I have seen girls on boardwalks
have complicated sensations.
I understand their hesitations.
I am a gatherer of fruit.
I have seen how kisses
cause euphoria.
I have risked enchantment.
I have seen the Virgin
in an appletree at Chartres
And Saint Joan burn
at the Bella Union.
I have seen giraffes in junglejims
their necks like love
wound around the iron circumstances
of the world.
I have seen the Venus Aphrodite
armless in her drafty corridor.
I have heard a siren sing
at One Fifth Avenue.
I have seen the White Goddess dancing
in the Rue des Beaux Arts
on the Fourteenth of July
and the Beautiful Dame Without Mercy
picking her nose in Chumley’s.
She did not speak English.
She had yellow hair
and a hoarse voice
I am leading a quiet life
in Mike’s Place every day
watching the pocket pool players
making the minestrone scene
wolfing the macaronis
and I have read somewhere
the Meaning of Existence
yet have forgotten
just exactly where.
But I am the man
And I’ll be there.
And I may cause the lips
of those who are asleep
to speak.
And I may make my notebooks
into sheaves of grass.
And I may write my own
eponymous epitaph
instructing the horsemen
to pass.


Lawrence Ferlinghetti

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La maestria di Barthes

L'altro giorno un settimanale dava il benvenuto a questo convegno osservando che con esso si ricordava un autore ingiustamente dimenticato. E' vezzo dei mass media occuparsi di qualcosa solo se in qualche modo fa notizia. Fa notizia la voga (e allora si intitola: Mode del momento: Roland Barthes), fa notizia lo scandalo, la pubblicazione recente di un'opera, ma in mancanza di meglio può far notizia la rivelazione che qualcuno o qualcosa è stato trascurato – e in tal caso lo “scoop” del giornale consiste nel ricordarsi di ciò che altro hanno lasciato cadere nell'oblio.
Ma Roland Barthes può davvero definirsi un autore ingiustamente dimenticato? Se andassimo a visitare oggi le librerie di New York ci accorgeremmo che vi sono scaffali esclusivamente dedicati alle sue opere, in corso di continua traduzione; vengono pubblicate con ritmo abbastanza intenso nuove monografie su Barthes; in Francia, e di immediato rimbalzo in Italia, continuano ad apparire degli inediti barthiani; Barthes viene citato, commemorato, rimpianto.
Caso mai potremmo dire che gli è accaduto ciò che non poteva non accadere: che in vita era personaggio controverso (e tutti ricordiamo ancora la polemica del professor Picard e l'ostracismo dichiaratogli dalla Sorbona) e che in morte è diventato un personaggio indiscusso. Del che nessuno dovrebbe lamentarsi, dato che diventare indiscusso è aspirazione di chiunque, in spirito di onestà e passione, si ponga a scrivere una pagina. E infine, ancora in vita, Barthes aveva goduto della suprema celebrazione del pamphlet satirico. La cosa lo aveva molto addolorato, e me ne ero stupito, perché se qualcuno scrive un intero libello parodiando il linguaggio di un autore, anzi il linguaggio dei suoi seguaci, questo significa che il parodiato ha raggiunto una condizione di grande ascolto. Ma tutti ricordiamo, di Barthes, la tenera e dolente sensibilità.
Che qualcuno si divertisse su cose che egli faceva con umbratile convinzione, lo feriva. Tale era l'uomo, ma di quest'uomo si può dire tutto, tranne che sia stato dimenticato.
Cerco però di capire in che senso il giornalista abbia sentito Barthes come “messo in ombra”, e lo spiegherei dividendo i pensatori in due categorie. Badate, la distinzione è di comodo, e soprattutto non vuole instaurare gerarchie, o opposizioni tra bianco e nero. Voglio solo delineare due modi, entrambi utili e accettabili, di essere maestri. C'è il maestro che lavora offrendo la sua vita e la sua attività come modello e c'è il maestro che spende la vita a costruire modelli, teorici o sperimentali, da applicare.
Barthes apparteneva indubbiamente al primo tipo di maestri. Non ha mai proposto schemi per poter scrivere altri frammenti di discorso amoroso, ma neppure nelle opere più prettamente “accademiche” (e si pensi a S/Z) ha offerto modelli di analisi – nel senso che non basta suddividere un testo in lessi per dire di un autore ciò che Barthes ha saputo dire di Balzac. Prendete pure l'idea di codice proairetico, datela in mano a una allievo senza fantasia, e ditegli di andarla ad applicare, che so, a Peau de chagrin: non ne verrà fuori gran che.
Appartengono alla seconda categoria autori come Chomsky o come Greimas: essi propongono modelli di analisi che consegnano ai propri discepoli, e li formulano proprio perché siano applicabili al di là della genialità individuale di chi li applica (anche se naturalmente ci possono essere dei cattivi chomskiani e dei cattivi greimasiani, come ci sono cattivi scolari che non sanno lavorare con la tavola pitagorica).
Si può essere hegeliani e non si può essere, se non per metafora, kierkegaardiani. I maestri della seconda categoria esigono che qualcuno, sulla loro scia, proceda ad applicare le loro ipotesi, e magari a correggerle, a perfezionarle, a falsificarle.
I maestri della prima categoria pongono in imbarazzo i loro discepoli, li sfidano a una continua e impossibile “imitatio magistri”, che si risolve proprio in quanto produce qualcosa di diverso dal lavoro del maestro.
Lavorare coi maestri del secondo tipo significa provare i loro modelli localmente, correggerli in particolari infinitesimali, e si corre il rischio, ad ogni passo, di essere riconosciuti eretici. Non così accade coi maestri del primo tipo: si è eretici sempre, e non si potrebbe non esserlo.
Ho detto che non volevo instaurare gerarchie, e lo ripeto. Ci sono i cattivi maestri di secondo tipo, che impongono i loro modelli dogmaticamente, e non consentono agli allievi di discuterli. Ci sono cattivi maestri di primo tipo, che danno spettacolo di estasi visionarie ed educano i discepoli al culto dell'ineffabile.
E' caratteristico dei maestri di primo tipo avere una pratica comunicativa che si identifica con la pratica artistica. Barthes ci ha fatto spesso capire che la conoscenza nasce attraverso la pratica della scrittura. Non nasce da un diagramma astratto di cui si tentino poi le applicazioni. Barthes ha tentato, almeno una volta, di pensare per diagrammi astratti, ed è accaduto col Sistema della Moda, ma noi sappiamo bene che ha dovuto farlo, quasi per scommessa, e comunque per necessità accademica (e la cosa gli ha dato talmente noia che, l'opera finita, egli ha evitato di sfruttarla come titolo universitario).
Questa artisticità presiede anche alle opere del cosiddetto Barthes teorico. Mi pare che ieri, in un'intervista, François
Wahl negasse che siano esistiti momenti e scansioni nell'opera di Barthes. Sarei d'accordo con lui: se ci sono stati, sono stati esterni e accidentali.
Un anno fa Isabella Pezzini ed io abbiamo scritto per “Communications” un saggio in cui cercavamo di mostrare come il Barthes semiologo esistesse prima degli Elementi di semiologia, e certamente si dai tempi dei Miti d'oggi
. Ma se è vero che Barthes faceva semiologia sin dall'inizio, anche quando scriveva dei “propos” dal tono per nulla accademico, è anche vero che Barthes faceva scrittura creativa anche quando stendeva quei suoi manualetti ad uso degli studenti, che poi, e solo accidentalmente, abbiamo conosciuto come libri di grande circolazione universitaria.
Permettetemi di riandare ad alcuni ricordi personali.
Quando apparvero gli Elementi di semiologia su “Communications 4”, Barthes non aveva alcuna intenzione di pubblicarli poi a parte in volume. Li considerava un brogliaccio, una cartella di appunti ad uso dei suoi seminari. Tuttavia esisteva allora in Italia la rivista “Marcatre” che aveva il vantaggio di essere enorme, di poter sopportare saggi molto lunghi, e io chiesi a Barthes il permesso di tradurre in quella sede gli Elementi. Egli acconsentì perché si trattava appunto di pubblicarli come materiali di lavoro. Ne affidai la traduzione ad Andrea Bonomi. Mentre si era pronti ad andare in stampa, morì Vittorini, e gli amici dell'Einaudi mi telefonarono dicendo che uno degli ultimi desideri dello scomparso era proprio quello di pubblicare gli Elementi in volumetto, per la collana “Nuovo Politecnico”. Al richiesta agì ricattatoriamente, per ragioni sentimentali, sia su Barthes che su di me: io cedetti la traduzione Bonomi, e Barthes acconsentì all'edizione in volume.
Il volume ha avuto il successo che sappiamo e solo dopo l'episodio italiano Barthes si decise a ripubblicare il testo anche in francese. Con poche variazioni (io chiesi subito di tradurre il materiale per un volumetto Bompiani) accadde con la Retorica antica.
Perché c'era sin d'allora in Barthes questo timore a esporsi come teorico e manualista? Io direi che, ingannandosi, all'inizio egli non sentiva questi testi come esercizio di vera scrittura. Ingannandosi, dico, perché l'effetto teorico che essi hanno avuto era invece effetto di scrittura, e di sottile strategia persuasiva. Falsi manuali, essi erano. Barthes ci faceva credere di esporci piattamente Saussure, e ribaltava il rapporto saussuriano tra semiologia e linguistica. Ci faceva credere di mutuare la nozione di connotazione (così importante anche nella sua pratica critica) da Hjelmselv, e non era vero: se andate a rileggervi i Prolegomena hjelmsleviani vi accorgerete che in quella sede la nozione di connotazione era assai più limitata e modesta (o prudente). Hjelmslev aveva offerto a Barthes non una nozione “forte” di semiotica connotativa come semiotica il cui piano dell'espressione è una semiotica soggiacente, ma una nozione assai “debole” di cosa fosse questa sopraelevazione semiotica. Gli esempi che Hjelmslev dà di connotazione riguardano per esempio il fatto che una pronuncia può connotare l'origine regionale. Nulla del concetto “forte” poi manipolato da Barthes, dove attraverso la lettura delle connotazioni si delinea la possibilità di leggere le tracce dell'ideologia, e il modo in cui una società fa circolare in modo altamente persuasivo i segni più apparentemente innocui. Barthes fingeva di ripetere, ma in effetti articolava sottili strategie di scrittura e, mentre scriveva, i suoi autori gli si trasformavano tra le mani.
Questo ci spiega perché poi Barthes ci è parso rinnegare i propri esercizi teorici e si è lanciato con decisione nelle opere di scrittura esplicita, dandoci l'impressione di aver abbandonato i suoi interessi semiologici (come prima avrebbe trascurato i suoi interessi di saggista). In realtà egli è sempre rimasto fedele alla sua vocazione, che non consisteva nel costruire un sistema semiologico adoperabile ma nel dirci sempre ad ogni passo che intorno a noi vi è del semiologico, ovvero che vi viviamo nella semiosi.
Ciò appare evidente anche nelle letture più apparentemente didascaliche dei miti d'oggi, in certe analisi di fotografie dove pare che Barthes cerchi di spiegarci che cosa quella immagine volesse dire. Ma la sua lezione non riguardava mai ciò che l'immagine voleva dire, bensì il fatto che in ogni caso essa “dicesse” E' raro che Barthes (che pure ha parlato tanto di codici) arrivi a irrigidire le sue letture in una codifica definitiva. La sua lezione semiologica, quella che lo rendeva così controverso, consisteva proprio nel puntare il dito su qualsiasi evento dell'universo e avvertire che esso voleva significare qualcosa. Questo irritava tanto i filosofi del linguaggi di formazione anglosassone, che lo accusavano per esempio di applicare all'arte culinaria le categorie della linguistica e di leggere come linguaggio ciò che non era stato prodotto linguisticamente. Potremmo discutere certe trasposizioni barthiane dalle categorie linguistiche ad altri sistemi di segni, ma dobbiamo renderci conto che ciò che egli intendeva fare era avvertire che in ogni caso vi è della significazione anche nel culinario e che in qualche modo occorre cercarla, anche se i modi e gli strumenti potranno essere riformulati.
Il semiologo, ci ripeteva, è colui che quando va in giro per la strada, là dove gli altri vedono fatti ed eventi, scorge, fiuta significazione. L'essersi appuntato sull'idea che c'è sempre, intorno a noi, della significazione, più che sul compito dizionariale di tradurre ad uso dei turisti sociologici i significanti multipli in significati univoci e stabiliti una volta per tutte, questa è stata l'eredità di Barthes.
Solo così possiamo capire la sua avventura giapponese. Finalmente egli si trovava di fronte a una civiltà di cui non conosceva alcun codice: qui egli giocava la sua capacità di capire, e di dire, che vi fosse significazione, anche nel momento in cui non capiva quale.
Gioco pericoloso, in cui Barthes camminava su un filo di rasoio: di quel linguaggio egli non conosceva le regole, eppure sapeva che si dice qualcosa anche nel modo di fare un pacchetto o di tagliare il pesce. Là dove per il giapponese la semiosi è implicita, e per l'occidentale inesistente, per Barthes si presentava una sfida interpretativa, una metodologia del sospetto. Ma proprio perché ciò che gli interessava era il meccanismo della semiosi, non la codifica dei suoi risultati, egli si compiaceva del rischio e della contraddizione. Lavorando su di una civiltà che con lo zen ha celebrato il rifiuto del senso, il silenzio, l'opacità, Barthes ad ogni pagina denunciava e negava la significazione, in una dialettica di ardimento e pudore. Lo haiku non ha senso, e però vi spende tre capitoli per mostrare il gioco del senso che vi si crea continuamente intorno.
Ecco perché, specie negli ultimi scritti, la condizione preferenziale della significazione gli è apparsa quella della poesia, o della letteratura in generale (vedi la Lezione): nella letteratura non si obbligati a fissare un senso, col senso si gioca. La metafora del poetico ricorre in tutta la sua lettura del Giappone, eppure Barthes usa questa metafora proprio mentre ci mostra che c'è poesia anche nei gesti più piattamente quotidiani. E' che per evitare di riempire il gesto quotidiano di senso definitivo, lo lavora d'interpretazione come se fosse metafora. Lavorava sulla semiosi quotidiana col timore di bloccarla, e la trattava con delicatezza, come avrebbe fatto chi, per rispetto della vita in ciascuna delle sue forme, accarezzasse un gatto randagio con la leggerezza e l'amore (e la venerazione) con cui si accarezza un gatto d'angora. Tutto è pieno di senso, egli ci diceva, e molto ve ne rivelo, ma non velo mostrerò tutto, e su quello che dico lascio cadere un'ombra di sospetto, forse di scetticismo, perché non voglio che irrigidiate in codice ciò che vi sto mostrando, e che interpretando facciate risorgere un fantasma, il fantasma del referente.
Ricordo un giorno a Milano, nei primi anni Sessanta, dopo una colazione. Ci stavamo accomiatando e lui, quasi a riassumere il discorso che avevamo fatto a tavola, mi disse: “Et surtout, d'accord, Umberto, il faut tuer le réféfent”. Erano gli anni in cui le teorie del linguaggio erano ancora fortemente referenziali, e ancorate ai valori di verità. La semiologia di indirizzo strutturalista cercava di lavorare invece sul contenuto, sulle illusioni di verità, sulla produzione di ideologia, sulle strategie della persuasione. Il momento in cui il significante si ancora al proprio supposto referente è il momento in cui il linguaggio perde di spessore e non lievità più, e diventa “innaturale”. Contro questo Barthes si batteva, e nel salvare la possibilità di una interrogazione ininterrotta del linguaggio egli realizzava il proprio modo di essere semiologo, anche quando non sembrava ancora (o più) fare della semiologia. Egli voleva lasciare lievitare i significanti non perché credesse, come altri, che tutto è catena significante e non vi è significato, ma proprio perché sapeva che tutto ha significato.
E tuttavia dobbiamo stare attenti a non leggere Barthes alla luce di altre teorie del testo (per esempio la decostruzione, la deriva) apparse dopo Barthes. La sua idea di “jouissance” non era anarchica, egli mirava, leggendo, a suscitare sensi plurimi, ma non a celebrare l'inafferrabilità, lo slittamento perpetuo del senso.
Ci sono due tipo di atteggiamento nei confronti dell'infinità del testo: uno è quello di Sant'Agostino, l'altro è quello dei kabbalisti.
I kabbalisti sapevano che le lettere della Torah possono essere combinate all'infinito per produrre sempre nuove versioni del libro e quindi infinite interpretazioni. Non vedo nulla di questo nella teoria testuale di Barthes. Agostino sapeva che il testo sacro era infinito (“infinita sensuum sylva”, come aveva detto San Gerolamo), ma che poteva sempre essere sottomesso a una regola di falsificazione, per escludere ciò che il contesto non consentiva di leggere, per energica che fosse la violenza ermeneutica a cui lo si sottoponesse. Non si può dire quando una interpretazione sia valida, né quale sia la migliore, ma si può dire quando il testo respinge una interpretazione incompatibile con la propria contestualità. E quanto Barthes legge Sarrasine, lo divide in lessie proprio perché la “jouissance” deve essere controllata dal loro rinvio reciproco, e l'articolarsi delle lessie governa e verifica la dialettica del godimento, l'eccitazione della divinazione. Barthes era agostiniano e non kabbalista.
Però sia chiaro: egli ci ha insegnato l'avventura di un uomo di fronte a un testo, non ci ha offerto modelli schematici da applicare, bensì un esempio vivente di come “incantarci” ogni giorno di fronte alla vitalità, e al mistero, della semiosi in atto. In questo senso dobbiamo ringraziarlo e in questo senso, checché ne dicano le gazzette, credo che sarà difficile dimenticare e lasciar morire il suo insegnamento*.


*Questo intervento di Umberto Eco al convegno di Reggio Emilia su Roland Barthes del 13-14 aprile 1984 è stato raccolto nel volume Mitologie di Roland Barthes, a cura di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Pratiche editrice, Parma 1986, pp. 297-304, che qui si ringrazia per la gentile concessione.

Roland Barthes, I miti d'oggi (prefazione di Umberto Eco), Einaudi

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Roland Barthes: Operazione Astra (o del perché Berlusconi ne uscirà come sempre vincente).

Insinuare nell'Ordine lo spettacolo compiacente delle sue schiavitù è diventato ormai un mezzo paradossale ma perentorio per glorificarlo. Ecco lo schema di questa nuova dimostrazione: prendere il valore d'ordine che si intende restaurare o sviluppare, esporre prima diffusamente le sue meschinità, le ingiustizie che ne derivano, le angherie che provoca, immergerlo nella sua imperfezione di natura; poi, all'ultimo momento, salvarlo malgrado o piuttosto con la pesante fatalità delle sue tare. Degli esempi? Non ne mancano.
Prendete un esercito: scoprite senza finzioni il caporalismo dei suoi capi, il carattere limitato, ingiusto, della sua disciplina, e in questa tirannia ottusa immergete un essere medio, soggetto ad errori ma simpatico, archetipo dello spettatore. E poi, all'ultimo momento, rovesciate il cappello magico, e traetene l'immagine di un esercito trionfante, bandiere al vento, adorabile, a cui, come la moglie di Sganarello, non si può essere che fedeli, anche se battuti (From here to eternity, Tant qu'il y aura des hommes).
Prendete un altro esercito: affermate il fanatismo scientifico dei suoi tecnici, la loro cecità; mostrate tutto ciò che un rigore tanto inumano distrugge: uomini, coppie. E poi tirate fuori la vostra bandiera, salvate l'esercito con il progresso, legate la grandezza dell'uno al trionfo dell'altro (Les Cyclons di Jules Roy). Infine la Chiesa: dite con frasi brucianti il suo farisaismo, la limitatezza dei suoi bigotti, avvertite che tutto questo può essere letale, non nascondete nessuna delle miserie della fede. E poi, in extremis, lasciate capire che la lettera, per ingrata che sia, è una via di salvezza per le sue vittime stesse, e giustificate il rigorismo morale con la santità di quelli che ne sono oppressi (Living room di Graham Greene).
E' una specie di omeopatia: si guariscono i dubbi contro la Chiesa, contro l'Esercito, con il male stesso della Chiesa e dell'Esercito. Si inocula un male contingente per prevenire o guarire un male essenziale. Insorgere contro l'inumanità dei valori d'ordine, si pensa, è una malattia comune, naturale, scusabile; non bisogna affrontarla direttamente ma piuttosto esorcizzarla come un invasamento: si fa rappresentare al malato la parte della sua malattia, lo si porta a conoscere il volto stesso della sua ribellione, e la ribellione sparisce tanto più sicuramente in quanto una volta allontanato, osservato, l'ordine si riduce a un insieme manicheo e quindi fatale, che vince sui due tavoli e di conseguenza benefico. Il male immanente della schiavitù è riscattato dal bene trascendente della religione, della patria, della Chiesa, ecc. Un po' di male “confessato” dispensa dal riconoscere molto male nascosto.
Nella pubblicità si può ritrovare uno schema romanzesco che illustra assai bene questo nuovo vaccino. Si tratta della pubblicità Astra. Il raccontino comincia sempre con un grido d'indignazione contro la margarina: “Una crema con la margarina? E' inconcepibile!” “Margarina? Ma tuo zio sarà furioso!” E poi gli occhi si spalancano, la coscienza si placa, la margarina è un alimento delizioso, gradevole, digeribile, economico, utile in ogni circostanza. Si conosce la morale del finale: “Eccovi liberati da un pregiudizio che vi costava caro!” In questo stesso modo, l'Ordine vi libera dai vostri pregiudizi progressisti. L'Esercito valore ideale? è inconcepibile; guardate le angherie, il caporalismo, la cecità sempre possibile dei suoi capi. La Chiesa infallibile? Ahimè, c'è molto da dubitarne: guardate i suoi bigotti, i suoi preti impotenti, il suo conformismo letale. E poi il buon senso fa i suoi conti: che cosa sono i piccoli inconvenienti dell'Ordine a paragone dei suoi vantaggi? Vale bene il prezzo di un vaccino. Che cosa importa, dopo tutto, che la margarina non sia altro che grasso, se il suo rendimento è superiore a quello del burro? Che cosa importa, dopo tutto, che l'Ordine sia un po' brutale e un po' cieco, se ci permette di vivere a buon mercato? Eccoci, anche noi, liberati da un pregiudizio che ci costava caro, troppo caro, che ci costava troppi scrupoli, troppe rivolte, troppe lotte e troppa solitudine.

Roland Barthes, I miti d'oggi, Einaudi