La maestria di Barthes
L'altro giorno un settimanale dava il benvenuto a questo convegno osservando che con esso si ricordava un autore ingiustamente dimenticato. E' vezzo dei mass media occuparsi di qualcosa solo se in qualche modo fa notizia. Fa notizia la voga (e allora si intitola: Mode del momento: Roland Barthes), fa notizia lo scandalo, la pubblicazione recente di un'opera, ma in mancanza di meglio può far notizia la rivelazione che qualcuno o qualcosa è stato trascurato – e in tal caso lo “scoop” del giornale consiste nel ricordarsi di ciò che altro hanno lasciato cadere nell'oblio.
Ma Roland Barthes può davvero definirsi un autore ingiustamente dimenticato? Se andassimo a visitare oggi le librerie di New York ci accorgeremmo che vi sono scaffali esclusivamente dedicati alle sue opere, in corso di continua traduzione; vengono pubblicate con ritmo abbastanza intenso nuove monografie su Barthes; in Francia, e di immediato rimbalzo in Italia, continuano ad apparire degli inediti barthiani; Barthes viene citato, commemorato, rimpianto.
Caso mai potremmo dire che gli è accaduto ciò che non poteva non accadere: che in vita era personaggio controverso (e tutti ricordiamo ancora la polemica del professor Picard e l'ostracismo dichiaratogli dalla Sorbona) e che in morte è diventato un personaggio indiscusso. Del che nessuno dovrebbe lamentarsi, dato che diventare indiscusso è aspirazione di chiunque, in spirito di onestà e passione, si ponga a scrivere una pagina. E infine, ancora in vita, Barthes aveva goduto della suprema celebrazione del pamphlet satirico. La cosa lo aveva molto addolorato, e me ne ero stupito, perché se qualcuno scrive un intero libello parodiando il linguaggio di un autore, anzi il linguaggio dei suoi seguaci, questo significa che il parodiato ha raggiunto una condizione di grande ascolto. Ma tutti ricordiamo, di Barthes, la tenera e dolente sensibilità.
Che qualcuno si divertisse su cose che egli faceva con umbratile convinzione, lo feriva. Tale era l'uomo, ma di quest'uomo si può dire tutto, tranne che sia stato dimenticato.
Cerco però di capire in che senso il giornalista abbia sentito Barthes come “messo in ombra”, e lo spiegherei dividendo i pensatori in due categorie. Badate, la distinzione è di comodo, e soprattutto non vuole instaurare gerarchie, o opposizioni tra bianco e nero. Voglio solo delineare due modi, entrambi utili e accettabili, di essere maestri. C'è il maestro che lavora offrendo la sua vita e la sua attività come modello e c'è il maestro che spende la vita a costruire modelli, teorici o sperimentali, da applicare.
Barthes apparteneva indubbiamente al primo tipo di maestri. Non ha mai proposto schemi per poter scrivere altri frammenti di discorso amoroso, ma neppure nelle opere più prettamente “accademiche” (e si pensi a S/Z) ha offerto modelli di analisi – nel senso che non basta suddividere un testo in lessi per dire di un autore ciò che Barthes ha saputo dire di Balzac. Prendete pure l'idea di codice proairetico, datela in mano a una allievo senza fantasia, e ditegli di andarla ad applicare, che so, a Peau de chagrin: non ne verrà fuori gran che.
Appartengono alla seconda categoria autori come Chomsky o come Greimas: essi propongono modelli di analisi che consegnano ai propri discepoli, e li formulano proprio perché siano applicabili al di là della genialità individuale di chi li applica (anche se naturalmente ci possono essere dei cattivi chomskiani e dei cattivi greimasiani, come ci sono cattivi scolari che non sanno lavorare con la tavola pitagorica).
Si può essere hegeliani e non si può essere, se non per metafora, kierkegaardiani. I maestri della seconda categoria esigono che qualcuno, sulla loro scia, proceda ad applicare le loro ipotesi, e magari a correggerle, a perfezionarle, a falsificarle.
I maestri della prima categoria pongono in imbarazzo i loro discepoli, li sfidano a una continua e impossibile “imitatio magistri”, che si risolve proprio in quanto produce qualcosa di diverso dal lavoro del maestro.
Lavorare coi maestri del secondo tipo significa provare i loro modelli localmente, correggerli in particolari infinitesimali, e si corre il rischio, ad ogni passo, di essere riconosciuti eretici. Non così accade coi maestri del primo tipo: si è eretici sempre, e non si potrebbe non esserlo.
Ho detto che non volevo instaurare gerarchie, e lo ripeto. Ci sono i cattivi maestri di secondo tipo, che impongono i loro modelli dogmaticamente, e non consentono agli allievi di discuterli. Ci sono cattivi maestri di primo tipo, che danno spettacolo di estasi visionarie ed educano i discepoli al culto dell'ineffabile.
E' caratteristico dei maestri di primo tipo avere una pratica comunicativa che si identifica con la pratica artistica. Barthes ci ha fatto spesso capire che la conoscenza nasce attraverso la pratica della scrittura. Non nasce da un diagramma astratto di cui si tentino poi le applicazioni. Barthes ha tentato, almeno una volta, di pensare per diagrammi astratti, ed è accaduto col Sistema della Moda, ma noi sappiamo bene che ha dovuto farlo, quasi per scommessa, e comunque per necessità accademica (e la cosa gli ha dato talmente noia che, l'opera finita, egli ha evitato di sfruttarla come titolo universitario).
Questa artisticità presiede anche alle opere del cosiddetto Barthes teorico. Mi pare che ieri, in un'intervista, François Wahl negasse che siano esistiti momenti e scansioni nell'opera di Barthes. Sarei d'accordo con lui: se ci sono stati, sono stati esterni e accidentali.
Un anno fa Isabella Pezzini ed io abbiamo scritto per “Communications” un saggio in cui cercavamo di mostrare come il Barthes semiologo esistesse prima degli Elementi di semiologia, e certamente si dai tempi dei Miti d'oggi. Ma se è vero che Barthes faceva semiologia sin dall'inizio, anche quando scriveva dei “propos” dal tono per nulla accademico, è anche vero che Barthes faceva scrittura creativa anche quando stendeva quei suoi manualetti ad uso degli studenti, che poi, e solo accidentalmente, abbiamo conosciuto come libri di grande circolazione universitaria.
Permettetemi di riandare ad alcuni ricordi personali.
Quando apparvero gli Elementi di semiologia su “Communications 4”, Barthes non aveva alcuna intenzione di pubblicarli poi a parte in volume. Li considerava un brogliaccio, una cartella di appunti ad uso dei suoi seminari. Tuttavia esisteva allora in Italia la rivista “Marcatre” che aveva il vantaggio di essere enorme, di poter sopportare saggi molto lunghi, e io chiesi a Barthes il permesso di tradurre in quella sede gli Elementi. Egli acconsentì perché si trattava appunto di pubblicarli come materiali di lavoro. Ne affidai la traduzione ad Andrea Bonomi. Mentre si era pronti ad andare in stampa, morì Vittorini, e gli amici dell'Einaudi mi telefonarono dicendo che uno degli ultimi desideri dello scomparso era proprio quello di pubblicare gli Elementi in volumetto, per la collana “Nuovo Politecnico”. Al richiesta agì ricattatoriamente, per ragioni sentimentali, sia su Barthes che su di me: io cedetti la traduzione Bonomi, e Barthes acconsentì all'edizione in volume.
Il volume ha avuto il successo che sappiamo e solo dopo l'episodio italiano Barthes si decise a ripubblicare il testo anche in francese. Con poche variazioni (io chiesi subito di tradurre il materiale per un volumetto Bompiani) accadde con la Retorica antica.
Perché c'era sin d'allora in Barthes questo timore a esporsi come teorico e manualista? Io direi che, ingannandosi, all'inizio egli non sentiva questi testi come esercizio di vera scrittura. Ingannandosi, dico, perché l'effetto teorico che essi hanno avuto era invece effetto di scrittura, e di sottile strategia persuasiva. Falsi manuali, essi erano. Barthes ci faceva credere di esporci piattamente Saussure, e ribaltava il rapporto saussuriano tra semiologia e linguistica. Ci faceva credere di mutuare la nozione di connotazione (così importante anche nella sua pratica critica) da Hjelmselv, e non era vero: se andate a rileggervi i Prolegomena hjelmsleviani vi accorgerete che in quella sede la nozione di connotazione era assai più limitata e modesta (o prudente). Hjelmslev aveva offerto a Barthes non una nozione “forte” di semiotica connotativa come semiotica il cui piano dell'espressione è una semiotica soggiacente, ma una nozione assai “debole” di cosa fosse questa sopraelevazione semiotica. Gli esempi che Hjelmslev dà di connotazione riguardano per esempio il fatto che una pronuncia può connotare l'origine regionale. Nulla del concetto “forte” poi manipolato da Barthes, dove attraverso la lettura delle connotazioni si delinea la possibilità di leggere le tracce dell'ideologia, e il modo in cui una società fa circolare in modo altamente persuasivo i segni più apparentemente innocui. Barthes fingeva di ripetere, ma in effetti articolava sottili strategie di scrittura e, mentre scriveva, i suoi autori gli si trasformavano tra le mani.
Questo ci spiega perché poi Barthes ci è parso rinnegare i propri esercizi teorici e si è lanciato con decisione nelle opere di scrittura esplicita, dandoci l'impressione di aver abbandonato i suoi interessi semiologici (come prima avrebbe trascurato i suoi interessi di saggista). In realtà egli è sempre rimasto fedele alla sua vocazione, che non consisteva nel costruire un sistema semiologico adoperabile ma nel dirci sempre ad ogni passo che intorno a noi vi è del semiologico, ovvero che vi viviamo nella semiosi.
Ciò appare evidente anche nelle letture più apparentemente didascaliche dei miti d'oggi, in certe analisi di fotografie dove pare che Barthes cerchi di spiegarci che cosa quella immagine volesse dire. Ma la sua lezione non riguardava mai ciò che l'immagine voleva dire, bensì il fatto che in ogni caso essa “dicesse” E' raro che Barthes (che pure ha parlato tanto di codici) arrivi a irrigidire le sue letture in una codifica definitiva. La sua lezione semiologica, quella che lo rendeva così controverso, consisteva proprio nel puntare il dito su qualsiasi evento dell'universo e avvertire che esso voleva significare qualcosa. Questo irritava tanto i filosofi del linguaggi di formazione anglosassone, che lo accusavano per esempio di applicare all'arte culinaria le categorie della linguistica e di leggere come linguaggio ciò che non era stato prodotto linguisticamente. Potremmo discutere certe trasposizioni barthiane dalle categorie linguistiche ad altri sistemi di segni, ma dobbiamo renderci conto che ciò che egli intendeva fare era avvertire che in ogni caso vi è della significazione anche nel culinario e che in qualche modo occorre cercarla, anche se i modi e gli strumenti potranno essere riformulati.
Il semiologo, ci ripeteva, è colui che quando va in giro per la strada, là dove gli altri vedono fatti ed eventi, scorge, fiuta significazione. L'essersi appuntato sull'idea che c'è sempre, intorno a noi, della significazione, più che sul compito dizionariale di tradurre ad uso dei turisti sociologici i significanti multipli in significati univoci e stabiliti una volta per tutte, questa è stata l'eredità di Barthes.
Solo così possiamo capire la sua avventura giapponese. Finalmente egli si trovava di fronte a una civiltà di cui non conosceva alcun codice: qui egli giocava la sua capacità di capire, e di dire, che vi fosse significazione, anche nel momento in cui non capiva quale.
Gioco pericoloso, in cui Barthes camminava su un filo di rasoio: di quel linguaggio egli non conosceva le regole, eppure sapeva che si dice qualcosa anche nel modo di fare un pacchetto o di tagliare il pesce. Là dove per il giapponese la semiosi è implicita, e per l'occidentale inesistente, per Barthes si presentava una sfida interpretativa, una metodologia del sospetto. Ma proprio perché ciò che gli interessava era il meccanismo della semiosi, non la codifica dei suoi risultati, egli si compiaceva del rischio e della contraddizione. Lavorando su di una civiltà che con lo zen ha celebrato il rifiuto del senso, il silenzio, l'opacità, Barthes ad ogni pagina denunciava e negava la significazione, in una dialettica di ardimento e pudore. Lo haiku non ha senso, e però vi spende tre capitoli per mostrare il gioco del senso che vi si crea continuamente intorno.
Ecco perché, specie negli ultimi scritti, la condizione preferenziale della significazione gli è apparsa quella della poesia, o della letteratura in generale (vedi la Lezione): nella letteratura non si obbligati a fissare un senso, col senso si gioca. La metafora del poetico ricorre in tutta la sua lettura del Giappone, eppure Barthes usa questa metafora proprio mentre ci mostra che c'è poesia anche nei gesti più piattamente quotidiani. E' che per evitare di riempire il gesto quotidiano di senso definitivo, lo lavora d'interpretazione come se fosse metafora. Lavorava sulla semiosi quotidiana col timore di bloccarla, e la trattava con delicatezza, come avrebbe fatto chi, per rispetto della vita in ciascuna delle sue forme, accarezzasse un gatto randagio con la leggerezza e l'amore (e la venerazione) con cui si accarezza un gatto d'angora. Tutto è pieno di senso, egli ci diceva, e molto ve ne rivelo, ma non velo mostrerò tutto, e su quello che dico lascio cadere un'ombra di sospetto, forse di scetticismo, perché non voglio che irrigidiate in codice ciò che vi sto mostrando, e che interpretando facciate risorgere un fantasma, il fantasma del referente.
Ricordo un giorno a Milano, nei primi anni Sessanta, dopo una colazione. Ci stavamo accomiatando e lui, quasi a riassumere il discorso che avevamo fatto a tavola, mi disse: “Et surtout, d'accord, Umberto, il faut tuer le réféfent”. Erano gli anni in cui le teorie del linguaggio erano ancora fortemente referenziali, e ancorate ai valori di verità. La semiologia di indirizzo strutturalista cercava di lavorare invece sul contenuto, sulle illusioni di verità, sulla produzione di ideologia, sulle strategie della persuasione. Il momento in cui il significante si ancora al proprio supposto referente è il momento in cui il linguaggio perde di spessore e non lievità più, e diventa “innaturale”. Contro questo Barthes si batteva, e nel salvare la possibilità di una interrogazione ininterrotta del linguaggio egli realizzava il proprio modo di essere semiologo, anche quando non sembrava ancora (o più) fare della semiologia. Egli voleva lasciare lievitare i significanti non perché credesse, come altri, che tutto è catena significante e non vi è significato, ma proprio perché sapeva che tutto ha significato.
E tuttavia dobbiamo stare attenti a non leggere Barthes alla luce di altre teorie del testo (per esempio la decostruzione, la deriva) apparse dopo Barthes. La sua idea di “jouissance” non era anarchica, egli mirava, leggendo, a suscitare sensi plurimi, ma non a celebrare l'inafferrabilità, lo slittamento perpetuo del senso.
Ci sono due tipo di atteggiamento nei confronti dell'infinità del testo: uno è quello di Sant'Agostino, l'altro è quello dei kabbalisti.
I kabbalisti sapevano che le lettere della Torah possono essere combinate all'infinito per produrre sempre nuove versioni del libro e quindi infinite interpretazioni. Non vedo nulla di questo nella teoria testuale di Barthes. Agostino sapeva che il testo sacro era infinito (“infinita sensuum sylva”, come aveva detto San Gerolamo), ma che poteva sempre essere sottomesso a una regola di falsificazione, per escludere ciò che il contesto non consentiva di leggere, per energica che fosse la violenza ermeneutica a cui lo si sottoponesse. Non si può dire quando una interpretazione sia valida, né quale sia la migliore, ma si può dire quando il testo respinge una interpretazione incompatibile con la propria contestualità. E quanto Barthes legge Sarrasine, lo divide in lessie proprio perché la “jouissance” deve essere controllata dal loro rinvio reciproco, e l'articolarsi delle lessie governa e verifica la dialettica del godimento, l'eccitazione della divinazione. Barthes era agostiniano e non kabbalista.
Però sia chiaro: egli ci ha insegnato l'avventura di un uomo di fronte a un testo, non ci ha offerto modelli schematici da applicare, bensì un esempio vivente di come “incantarci” ogni giorno di fronte alla vitalità, e al mistero, della semiosi in atto. In questo senso dobbiamo ringraziarlo e in questo senso, checché ne dicano le gazzette, credo che sarà difficile dimenticare e lasciar morire il suo insegnamento*.
Ma Roland Barthes può davvero definirsi un autore ingiustamente dimenticato? Se andassimo a visitare oggi le librerie di New York ci accorgeremmo che vi sono scaffali esclusivamente dedicati alle sue opere, in corso di continua traduzione; vengono pubblicate con ritmo abbastanza intenso nuove monografie su Barthes; in Francia, e di immediato rimbalzo in Italia, continuano ad apparire degli inediti barthiani; Barthes viene citato, commemorato, rimpianto.
Caso mai potremmo dire che gli è accaduto ciò che non poteva non accadere: che in vita era personaggio controverso (e tutti ricordiamo ancora la polemica del professor Picard e l'ostracismo dichiaratogli dalla Sorbona) e che in morte è diventato un personaggio indiscusso. Del che nessuno dovrebbe lamentarsi, dato che diventare indiscusso è aspirazione di chiunque, in spirito di onestà e passione, si ponga a scrivere una pagina. E infine, ancora in vita, Barthes aveva goduto della suprema celebrazione del pamphlet satirico. La cosa lo aveva molto addolorato, e me ne ero stupito, perché se qualcuno scrive un intero libello parodiando il linguaggio di un autore, anzi il linguaggio dei suoi seguaci, questo significa che il parodiato ha raggiunto una condizione di grande ascolto. Ma tutti ricordiamo, di Barthes, la tenera e dolente sensibilità.
Che qualcuno si divertisse su cose che egli faceva con umbratile convinzione, lo feriva. Tale era l'uomo, ma di quest'uomo si può dire tutto, tranne che sia stato dimenticato.
Cerco però di capire in che senso il giornalista abbia sentito Barthes come “messo in ombra”, e lo spiegherei dividendo i pensatori in due categorie. Badate, la distinzione è di comodo, e soprattutto non vuole instaurare gerarchie, o opposizioni tra bianco e nero. Voglio solo delineare due modi, entrambi utili e accettabili, di essere maestri. C'è il maestro che lavora offrendo la sua vita e la sua attività come modello e c'è il maestro che spende la vita a costruire modelli, teorici o sperimentali, da applicare.
Barthes apparteneva indubbiamente al primo tipo di maestri. Non ha mai proposto schemi per poter scrivere altri frammenti di discorso amoroso, ma neppure nelle opere più prettamente “accademiche” (e si pensi a S/Z) ha offerto modelli di analisi – nel senso che non basta suddividere un testo in lessi per dire di un autore ciò che Barthes ha saputo dire di Balzac. Prendete pure l'idea di codice proairetico, datela in mano a una allievo senza fantasia, e ditegli di andarla ad applicare, che so, a Peau de chagrin: non ne verrà fuori gran che.
Appartengono alla seconda categoria autori come Chomsky o come Greimas: essi propongono modelli di analisi che consegnano ai propri discepoli, e li formulano proprio perché siano applicabili al di là della genialità individuale di chi li applica (anche se naturalmente ci possono essere dei cattivi chomskiani e dei cattivi greimasiani, come ci sono cattivi scolari che non sanno lavorare con la tavola pitagorica).
Si può essere hegeliani e non si può essere, se non per metafora, kierkegaardiani. I maestri della seconda categoria esigono che qualcuno, sulla loro scia, proceda ad applicare le loro ipotesi, e magari a correggerle, a perfezionarle, a falsificarle.
I maestri della prima categoria pongono in imbarazzo i loro discepoli, li sfidano a una continua e impossibile “imitatio magistri”, che si risolve proprio in quanto produce qualcosa di diverso dal lavoro del maestro.
Lavorare coi maestri del secondo tipo significa provare i loro modelli localmente, correggerli in particolari infinitesimali, e si corre il rischio, ad ogni passo, di essere riconosciuti eretici. Non così accade coi maestri del primo tipo: si è eretici sempre, e non si potrebbe non esserlo.
Ho detto che non volevo instaurare gerarchie, e lo ripeto. Ci sono i cattivi maestri di secondo tipo, che impongono i loro modelli dogmaticamente, e non consentono agli allievi di discuterli. Ci sono cattivi maestri di primo tipo, che danno spettacolo di estasi visionarie ed educano i discepoli al culto dell'ineffabile.
E' caratteristico dei maestri di primo tipo avere una pratica comunicativa che si identifica con la pratica artistica. Barthes ci ha fatto spesso capire che la conoscenza nasce attraverso la pratica della scrittura. Non nasce da un diagramma astratto di cui si tentino poi le applicazioni. Barthes ha tentato, almeno una volta, di pensare per diagrammi astratti, ed è accaduto col Sistema della Moda, ma noi sappiamo bene che ha dovuto farlo, quasi per scommessa, e comunque per necessità accademica (e la cosa gli ha dato talmente noia che, l'opera finita, egli ha evitato di sfruttarla come titolo universitario).
Questa artisticità presiede anche alle opere del cosiddetto Barthes teorico. Mi pare che ieri, in un'intervista, François Wahl negasse che siano esistiti momenti e scansioni nell'opera di Barthes. Sarei d'accordo con lui: se ci sono stati, sono stati esterni e accidentali.
Un anno fa Isabella Pezzini ed io abbiamo scritto per “Communications” un saggio in cui cercavamo di mostrare come il Barthes semiologo esistesse prima degli Elementi di semiologia, e certamente si dai tempi dei Miti d'oggi. Ma se è vero che Barthes faceva semiologia sin dall'inizio, anche quando scriveva dei “propos” dal tono per nulla accademico, è anche vero che Barthes faceva scrittura creativa anche quando stendeva quei suoi manualetti ad uso degli studenti, che poi, e solo accidentalmente, abbiamo conosciuto come libri di grande circolazione universitaria.
Permettetemi di riandare ad alcuni ricordi personali.
Quando apparvero gli Elementi di semiologia su “Communications 4”, Barthes non aveva alcuna intenzione di pubblicarli poi a parte in volume. Li considerava un brogliaccio, una cartella di appunti ad uso dei suoi seminari. Tuttavia esisteva allora in Italia la rivista “Marcatre” che aveva il vantaggio di essere enorme, di poter sopportare saggi molto lunghi, e io chiesi a Barthes il permesso di tradurre in quella sede gli Elementi. Egli acconsentì perché si trattava appunto di pubblicarli come materiali di lavoro. Ne affidai la traduzione ad Andrea Bonomi. Mentre si era pronti ad andare in stampa, morì Vittorini, e gli amici dell'Einaudi mi telefonarono dicendo che uno degli ultimi desideri dello scomparso era proprio quello di pubblicare gli Elementi in volumetto, per la collana “Nuovo Politecnico”. Al richiesta agì ricattatoriamente, per ragioni sentimentali, sia su Barthes che su di me: io cedetti la traduzione Bonomi, e Barthes acconsentì all'edizione in volume.
Il volume ha avuto il successo che sappiamo e solo dopo l'episodio italiano Barthes si decise a ripubblicare il testo anche in francese. Con poche variazioni (io chiesi subito di tradurre il materiale per un volumetto Bompiani) accadde con la Retorica antica.
Perché c'era sin d'allora in Barthes questo timore a esporsi come teorico e manualista? Io direi che, ingannandosi, all'inizio egli non sentiva questi testi come esercizio di vera scrittura. Ingannandosi, dico, perché l'effetto teorico che essi hanno avuto era invece effetto di scrittura, e di sottile strategia persuasiva. Falsi manuali, essi erano. Barthes ci faceva credere di esporci piattamente Saussure, e ribaltava il rapporto saussuriano tra semiologia e linguistica. Ci faceva credere di mutuare la nozione di connotazione (così importante anche nella sua pratica critica) da Hjelmselv, e non era vero: se andate a rileggervi i Prolegomena hjelmsleviani vi accorgerete che in quella sede la nozione di connotazione era assai più limitata e modesta (o prudente). Hjelmslev aveva offerto a Barthes non una nozione “forte” di semiotica connotativa come semiotica il cui piano dell'espressione è una semiotica soggiacente, ma una nozione assai “debole” di cosa fosse questa sopraelevazione semiotica. Gli esempi che Hjelmslev dà di connotazione riguardano per esempio il fatto che una pronuncia può connotare l'origine regionale. Nulla del concetto “forte” poi manipolato da Barthes, dove attraverso la lettura delle connotazioni si delinea la possibilità di leggere le tracce dell'ideologia, e il modo in cui una società fa circolare in modo altamente persuasivo i segni più apparentemente innocui. Barthes fingeva di ripetere, ma in effetti articolava sottili strategie di scrittura e, mentre scriveva, i suoi autori gli si trasformavano tra le mani.
Questo ci spiega perché poi Barthes ci è parso rinnegare i propri esercizi teorici e si è lanciato con decisione nelle opere di scrittura esplicita, dandoci l'impressione di aver abbandonato i suoi interessi semiologici (come prima avrebbe trascurato i suoi interessi di saggista). In realtà egli è sempre rimasto fedele alla sua vocazione, che non consisteva nel costruire un sistema semiologico adoperabile ma nel dirci sempre ad ogni passo che intorno a noi vi è del semiologico, ovvero che vi viviamo nella semiosi.
Ciò appare evidente anche nelle letture più apparentemente didascaliche dei miti d'oggi, in certe analisi di fotografie dove pare che Barthes cerchi di spiegarci che cosa quella immagine volesse dire. Ma la sua lezione non riguardava mai ciò che l'immagine voleva dire, bensì il fatto che in ogni caso essa “dicesse” E' raro che Barthes (che pure ha parlato tanto di codici) arrivi a irrigidire le sue letture in una codifica definitiva. La sua lezione semiologica, quella che lo rendeva così controverso, consisteva proprio nel puntare il dito su qualsiasi evento dell'universo e avvertire che esso voleva significare qualcosa. Questo irritava tanto i filosofi del linguaggi di formazione anglosassone, che lo accusavano per esempio di applicare all'arte culinaria le categorie della linguistica e di leggere come linguaggio ciò che non era stato prodotto linguisticamente. Potremmo discutere certe trasposizioni barthiane dalle categorie linguistiche ad altri sistemi di segni, ma dobbiamo renderci conto che ciò che egli intendeva fare era avvertire che in ogni caso vi è della significazione anche nel culinario e che in qualche modo occorre cercarla, anche se i modi e gli strumenti potranno essere riformulati.
Il semiologo, ci ripeteva, è colui che quando va in giro per la strada, là dove gli altri vedono fatti ed eventi, scorge, fiuta significazione. L'essersi appuntato sull'idea che c'è sempre, intorno a noi, della significazione, più che sul compito dizionariale di tradurre ad uso dei turisti sociologici i significanti multipli in significati univoci e stabiliti una volta per tutte, questa è stata l'eredità di Barthes.
Solo così possiamo capire la sua avventura giapponese. Finalmente egli si trovava di fronte a una civiltà di cui non conosceva alcun codice: qui egli giocava la sua capacità di capire, e di dire, che vi fosse significazione, anche nel momento in cui non capiva quale.
Gioco pericoloso, in cui Barthes camminava su un filo di rasoio: di quel linguaggio egli non conosceva le regole, eppure sapeva che si dice qualcosa anche nel modo di fare un pacchetto o di tagliare il pesce. Là dove per il giapponese la semiosi è implicita, e per l'occidentale inesistente, per Barthes si presentava una sfida interpretativa, una metodologia del sospetto. Ma proprio perché ciò che gli interessava era il meccanismo della semiosi, non la codifica dei suoi risultati, egli si compiaceva del rischio e della contraddizione. Lavorando su di una civiltà che con lo zen ha celebrato il rifiuto del senso, il silenzio, l'opacità, Barthes ad ogni pagina denunciava e negava la significazione, in una dialettica di ardimento e pudore. Lo haiku non ha senso, e però vi spende tre capitoli per mostrare il gioco del senso che vi si crea continuamente intorno.
Ecco perché, specie negli ultimi scritti, la condizione preferenziale della significazione gli è apparsa quella della poesia, o della letteratura in generale (vedi la Lezione): nella letteratura non si obbligati a fissare un senso, col senso si gioca. La metafora del poetico ricorre in tutta la sua lettura del Giappone, eppure Barthes usa questa metafora proprio mentre ci mostra che c'è poesia anche nei gesti più piattamente quotidiani. E' che per evitare di riempire il gesto quotidiano di senso definitivo, lo lavora d'interpretazione come se fosse metafora. Lavorava sulla semiosi quotidiana col timore di bloccarla, e la trattava con delicatezza, come avrebbe fatto chi, per rispetto della vita in ciascuna delle sue forme, accarezzasse un gatto randagio con la leggerezza e l'amore (e la venerazione) con cui si accarezza un gatto d'angora. Tutto è pieno di senso, egli ci diceva, e molto ve ne rivelo, ma non velo mostrerò tutto, e su quello che dico lascio cadere un'ombra di sospetto, forse di scetticismo, perché non voglio che irrigidiate in codice ciò che vi sto mostrando, e che interpretando facciate risorgere un fantasma, il fantasma del referente.
Ricordo un giorno a Milano, nei primi anni Sessanta, dopo una colazione. Ci stavamo accomiatando e lui, quasi a riassumere il discorso che avevamo fatto a tavola, mi disse: “Et surtout, d'accord, Umberto, il faut tuer le réféfent”. Erano gli anni in cui le teorie del linguaggio erano ancora fortemente referenziali, e ancorate ai valori di verità. La semiologia di indirizzo strutturalista cercava di lavorare invece sul contenuto, sulle illusioni di verità, sulla produzione di ideologia, sulle strategie della persuasione. Il momento in cui il significante si ancora al proprio supposto referente è il momento in cui il linguaggio perde di spessore e non lievità più, e diventa “innaturale”. Contro questo Barthes si batteva, e nel salvare la possibilità di una interrogazione ininterrotta del linguaggio egli realizzava il proprio modo di essere semiologo, anche quando non sembrava ancora (o più) fare della semiologia. Egli voleva lasciare lievitare i significanti non perché credesse, come altri, che tutto è catena significante e non vi è significato, ma proprio perché sapeva che tutto ha significato.
E tuttavia dobbiamo stare attenti a non leggere Barthes alla luce di altre teorie del testo (per esempio la decostruzione, la deriva) apparse dopo Barthes. La sua idea di “jouissance” non era anarchica, egli mirava, leggendo, a suscitare sensi plurimi, ma non a celebrare l'inafferrabilità, lo slittamento perpetuo del senso.
Ci sono due tipo di atteggiamento nei confronti dell'infinità del testo: uno è quello di Sant'Agostino, l'altro è quello dei kabbalisti.
I kabbalisti sapevano che le lettere della Torah possono essere combinate all'infinito per produrre sempre nuove versioni del libro e quindi infinite interpretazioni. Non vedo nulla di questo nella teoria testuale di Barthes. Agostino sapeva che il testo sacro era infinito (“infinita sensuum sylva”, come aveva detto San Gerolamo), ma che poteva sempre essere sottomesso a una regola di falsificazione, per escludere ciò che il contesto non consentiva di leggere, per energica che fosse la violenza ermeneutica a cui lo si sottoponesse. Non si può dire quando una interpretazione sia valida, né quale sia la migliore, ma si può dire quando il testo respinge una interpretazione incompatibile con la propria contestualità. E quanto Barthes legge Sarrasine, lo divide in lessie proprio perché la “jouissance” deve essere controllata dal loro rinvio reciproco, e l'articolarsi delle lessie governa e verifica la dialettica del godimento, l'eccitazione della divinazione. Barthes era agostiniano e non kabbalista.
Però sia chiaro: egli ci ha insegnato l'avventura di un uomo di fronte a un testo, non ci ha offerto modelli schematici da applicare, bensì un esempio vivente di come “incantarci” ogni giorno di fronte alla vitalità, e al mistero, della semiosi in atto. In questo senso dobbiamo ringraziarlo e in questo senso, checché ne dicano le gazzette, credo che sarà difficile dimenticare e lasciar morire il suo insegnamento*.
*Questo intervento di Umberto Eco al convegno di Reggio Emilia su Roland Barthes del 13-14 aprile 1984 è stato raccolto nel volume Mitologie di Roland Barthes, a cura di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Pratiche editrice, Parma 1986, pp. 297-304, che qui si ringrazia per la gentile concessione.
Roland Barthes, I miti d'oggi (prefazione di Umberto Eco), Einaudi